Ci sono dei libri che necessariamente devono abitare nella biblioteca di tutti gli amanti della fotografia; “Sulla fotografia” di Susan Sontag è il primo di una lunga lista poiché contiene una raccolta di riflessioni che oltre a essere ben strutturata, risulta appassionante e ricca di spunti.
Questo saggio venne scritto nel lontano1977, e sebbene in questo lasso di tempo siano cambiati tanti aspetti formali della fotografia, riesce a rimanere sempre molto attuale e un cardine per la comprensione della fotografia, i suoi effetti sulla società, individuando una rete di significati nell’evoluzione della fotografia che gettano luce nuova e consentono una ricapitolazione stimolante ed esaustiva.

Tra le pagine di “Sulla fotografia”, con un linguaggio chiaro, immediato e accessibile a tutti, vengono gradualmente elargiti molti strumenti a chi si vuole avvicinare alla fotografia con autenticità e consapevolezza,

Parto da un estratto di questo meraviglioso saggio, lasciando alle parole della Sontag il compito di aprire una importante riflessione

“L’umanità si attarda nella grotta di Platone, continuando a dilettarsi, per abitudine secolare, di semplici immagini della verità. Ma esser stati educati dalle fotografie non è come esser stati educati da immagini più antiche e più artigianali: oggi sono molto più numerose le immagini che richiedono la nostra attenzione; l’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare; questa insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo; insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare; la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini; nelle fotografie l’immagine è anche un oggetto, leggero, poco costoso, facile da portarsi appresso, da accumulare, da conservare. Le fotografie sono forse i più misteriosi tra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno. Esse sono in realtà esperienza catturata, e la macchina fotografica è l’arma ideale di una consapevolezza di tipo acquisitivo. Fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere”.

Finalmente, quaranta anni fa, qualcuno ci ha fatto capire di poter ricoprire il ruolo di spettatori attivi del processo fotografico, raccontandoci il nostro atlante visivo del mondo come una sorta di scrigno magico dal quale attingere la nostra consapevolezza e dentro il quale modellare il nostro rapporto con la nostra porzione di mondo.

Quello che lei chiama “inventario” e che io ridefinisco “come atlante visivo” ha, infatti, il potere di intrappolare una quantità sempre maggiore di informazioni, oggetti, persone e luoghi del mondo e di farlo entrare nella nostra memoria quotidiana.

Attraverso le fotografie, il mondo si trasforma in una collezione di fotogrammi, a sé stanti, perché è una visione del mondo, nega la connessione e la continuità temporale della realtà conferendo ad ogni momento il carattere di mistero. Susan Sontag afferma, in tal senso: “La suprema saggezza dell’immagine fotografica consiste nel dire: Questa è la superficie. Pensa adesso, o meglio intuisci, che cosa c’è da là da essa, che cosa deve essere la realtà se questo è il suo aspetto“.

Lontana dall’idea di essere uno specchio della realtà, la fotografia diventa, con questa premessa, un invito alla speculazione.

La conoscenza raggiunta attraverso la fotografia, sostiene Susan Sontag, sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico. Sarà una conoscenza a prezzi di liquidazione, un’apparenza di conoscenza, un’apparenza di saggezza; come l’atto di fare una fotografia è un’apparenza di appropriazione

La Sontag non riuscì ad assistere all’irruzione del digitale e quell’inventario del mondo di cui lei anticipò l’avvento, comincia oggi a formarsi come un enorme e ingestibile archivio di immagini del quale non riusciamo più a servircene come potremmo.
Produciamo più memoria fotografia di quanta ne possiamo elaborare: fermiamo la nostra attenzione su questo punto e sulla necessità di ritagliarci degli spazi visivi realmente conformi alle nostre esigenze e ai nostri desideri.

Riconosco, infine, una vena sentimentale in larga parte della fotografia che esprime difficoltà o una sorta di resistenza a relazionarsi con il tempo presente e le parole della Sontag mi confermano questa sensazione:
La nostra è un’epoca nostalgica e i fotografi sono promotori attivi della nostalgia. La fotografia è un’arte elegiaca, un’arte crepuscolare. Quasi tutti i suoi soggetti, per il solo fatto di essere fotografati, sono tinti di pathos.
Questo piccolo ostacolo, ahimè, ci tiene lontani da una delle grandi magie della fotografia. Attraverso il processo di piena relazione con la fotografia, infatti, possiamo vivere una delle migliori esperienze catartiche della nostra vita poiché ci viene concessa la possibilità di guardarci e di selezionare cosa lasciare e cosa trasformare del nostro bagaglio di vita.

 

Susan Sontag

Sulla fotografia

Realtà e Immagine nella nostra società

Gli Struzzi. Einaudi Editore